Fin dai suoi esordi alla fine degli anni ’80, il lavoro di Mario Airò costituisce una riflessione lucida e poetica sul luogo e sulle modalità di incontro tra passato letterario e presente merceologico, tra suggestioni arcaiche e mitologie del futuro prossimo e remoto: un luogo di incontro che, soprattutto, è un punto di equilibrio e di conciliazione.

Per la sua prima mostra personale presso l’Associazione VistaMare, l’artista ha concepito un intervento che fonde luce, suono e pratica installativa in un semplice, eppure stratificato, set di rimandi e corrispondenze tra il tempo geologico dell’umanità, la cronaca tecnologica e il filo rosso della quotidianità artistica come memoria.

Lo spazio espositivo è utilizzato nei suoi valori insieme di soglia e di limite: due proiezioni luminose, infatti, occupano la prima l’ingresso, quasi ad accogliere lo spettatore, e la seconda una parete di fondo dell’ultima stanza, quasi ad aprire un punto di fuga verso un altrove lontano nel tempo. In entrambi i casi le immagini luminose proiettate sul pavimento e sulla parete che lambisce il soffitto suggeriscono l’idea di segno come traccia di un passaggio, quindi della creatività come funzione della memoria e della necessità di registrazione: il primo disegno di luce in cui ci si imbatte è quasi un segno astratto, successivamente riconducibile all’impronta di una scarpa che ha marcato il suolo, mentre il secondo richiama alla mente le pitture rupestri e la nascita della figurazione come una delle prime funzioni della genesi del mito della creazione.

Una delle prime testimonianze dell’esistenza dell’uomo – il deposito vitale del suo tempo primitivo, quindi – è riportata come traccia luminescente, quasi un segno di natura prometeica, insieme con la più banale e prosaica prova di passaggio, quella della suola di una scarpa, appunto. In entrambi i casi è la corrispondenza tra segno e luce a suggerire che è proprio il disegno la pratica artistica più vicina alla produzione del mito. Un mito che non si accontenta, retoricamente, di originare il mondo atavico ma che, al contrario, si cala nel presente, gioca con la tecnologia con leggerezza, sperimenta le valenze del meccanismo della proiezione – dall’illusione della caverna platonica fino alla sospensione del principio di realtà nel buio della sala cinematografica – e, finalmente, guarda al futuro con incanto e seduzione.
Alessandro Rabottini